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Il Disturbo Bipolare: la vertigine dell’umore tra euforia e abisso

“Il disturbo bipolare colpisce circa l’1-2% della popolazione mondiale, ma le sue conseguenze si estendono ben oltre la statistica. Perché quando l’umore si frantuma, è tutta l’identità a tremare.”

printDi :: 30 marzo 2025 13:59
Disturbo Biplolare

Disturbo Biplolare

Vi è una forma particolare di sofferenza psichica che non si limita a intaccare il tono dell’umore in senso depressivo, ma ne sconvolge la stabilità stessa, trasportando il soggetto in un’alternanza vertiginosa tra abissi di dolore e vette di esaltazione. Questa forma prende il nome di disturbo bipolare, ed è una delle manifestazioni cliniche più complesse, affascinanti e, al contempo, devastanti dell’intera psichiatria.

Una questione di ritmo vitale

(AGR) Il disturbo bipolare può essere compreso soltanto se si assume una visione dinamica della vita psichica. In esso non c’è soltanto un “umore basso”, come accade nella depressione maggiore, ma un’oscillazione ciclica che coinvolge profondamente l’intero vissuto dell’individuo: il pensiero, l’energia, la progettualità, le relazioni, il senso del tempo.

La ciclicità è il tratto distintivo di questo disturbo. Il soggetto non è depresso “sempre”, né euforico “permanentemente”. Alterna episodi depressivi — con tristezza profonda, perdita d’interesse, rallentamento, senso di colpa, idee suicidarie — a episodi maniacali — caratterizzati da euforia, iperattività, logorrea, grandiosità, ridotta necessità di sonno, disinibizione e comportamenti spesso rischiosi.

 
In alcuni casi, l’umore cambia così rapidamente da configurare stati misti o forme cosiddette a cicli rapidi, in cui l’organizzazione del pensiero e dell’affettività appare frammentata, confusa, dolorosamente instabile. In altri ancora, l’esordio del disturbo può essere tardivo e iniziare con una lunga fase depressiva, solo in seguito seguita da una fase di polarità opposta. Ciò complica ulteriormente la diagnosi e l’approccio terapeutico.

La diagnosi nella modernità: tra criteri clinici e vissuti soggettivi

Nel DSM-5, il disturbo bipolare viene classificato in due principali forme: Disturbo Bipolare di tipo I e Disturbo Bipolare di tipo II. Il primo prevede almeno un episodio maniacale pieno, mentre il secondo è caratterizzato da episodi ipomaniacali (meno intensi) alternati a depressioni significative. A queste si aggiungono varianti diagnostiche come il disturbo ciclotimico e forme con caratteristiche miste.

Ma il vero rischio insito in ogni classificazione è l’appiattimento della ricchezza fenomenologica del vissuto soggettivo. La medicina moderna, spinta da esigenze descrittive e statistiche, corre il pericolo di trasformare l’individuo in una somma di sintomi. Ciò è particolarmente grave nel caso del disturbo bipolare, dove ogni espressione sintomatica possiede una qualità esistenziale e simbolica che merita di essere compresa, non solo contenuta.

Un episodio maniacale non è solo un “eccesso di energia”: può rappresentare un’esplosione vitale, una rottura con le costrizioni del quotidiano, una fuga dal dolore. Così come l’episodio depressivo non è solo “umore basso”, ma un confronto radicale con la perdita di senso, con il vuoto, con l’ombra.

Dalla genetica alla biografia: cause e interazioni

Il disturbo bipolare, come la depressione, è il frutto di un’interazione complessa tra fattori biologici, ambientali, relazionali e filosofici. Le indagini genetiche hanno confermato una forte ereditarietà: chi ha un parente di primo grado affetto da disturbo bipolare presenta un rischio significativamente aumentato. Alterazioni neurotrasmettitoriali — in particolare a carico dei sistemi serotoninergico, dopaminergico e noradrenergico — sono state frequentemente osservate, insieme a modificazioni strutturali in specifiche aree cerebrali (amigdala, corteccia prefrontale, ippocampo).

Ma nessuna base neurobiologica può spiegare da sola la totalità dell’esperienza bipolare. L’ambiente familiare, i traumi, le perdite, l’instabilità affettiva, lo stress cronico, sono tutti elementi che contribuiscono alla genesi e al mantenimento del disturbo. E infine, non va dimenticata quella che definirei la vulnerabilità ontologica dell’essere umano: l’oscillazione dell’umore come metafora dell’irriducibile ambivalenza della nostra condizione, sempre tesa tra desiderio e finitudine.

La fase maniacale: l’illusione dell’onnipotenza

Chi non ha mai osservato un paziente in fase maniacale può difficilmente immaginare la portata dell’alterazione. L’umore è esageratamente elevato, spesso euforico, a volte irritabile. Il pensiero corre veloce, le associazioni sono bizzarre, il soggetto parla in modo incessante e a tratti incomprensibile. Ha progetti grandiosi, spende denaro senza freni, si espone a pericoli, ignora il giudizio altrui.

Ma la maniacalità non è gioia: è una forma di delirio esistenziale, una fuga dal limite, un tentativo disperato di affermare una vitalità che, in profondità, sente minacciata. Spesso, infatti, la fase maniacale è preceduta o seguita da un crollo drammatico dell’umore. Ed è proprio in questa oscillazione vertiginosa che si cela il carattere tragico del disturbo.

Dopo la frenesia, la caduta. Il soggetto in fase depressiva bipolare presenta tutti i sintomi tipici della depressione maggiore: umore triste, perdita di piacere, insonnia, rallentamento, pensieri di morte. Ma vi è una qualità particolare nel vissuto del paziente bipolare: egli ha conosciuto l’onnipotenza della mania, e ora si ritrova in un baratro ancora più profondo, proprio perché ha sperimentato il suo opposto.

La depressione bipolare è spesso più grave, più resistente ai trattamenti, più pericolosa per la presenza di comportamenti suicidari. In molti casi, il suicidio rappresenta l’estremo tentativo di porre fine all’alternanza insostenibile tra poli opposti, come se l’unico modo per fermare il ciclo fosse uscire dal tempo.

Stati misti: quando il dolore e la frenesia si incontrano

Esiste una condizione particolarmente insidiosa e difficile da trattare: lo stato misto. In esso, il soggetto presenta contemporaneamente sintomi depressivi e maniacali. Si sente angosciato, ma agitato. Disperato, ma energico. Pensa alla morte con una lucidità inquietante e può passare all’azione in modo improvviso e imprevedibile.

Lo stato misto è forse l’espressione più pericolosa del disturbo bipolare, proprio perché coniuga la motivazione suicidaria tipica della depressione con l’impulsività e la disinibizione della mania. È qui che la psichiatria, la psicologia e la filosofia sono chiamate a un dialogo urgente, per contenere e comprendere l’urgenza distruttiva che abita questi stati liminali.

Il trattamento: tra farmacologia e umanità

Il trattamento del disturbo bipolare richiede un approccio articolato. La terapia farmacologica è spesso necessaria, e si avvale di stabilizzatori dell’umore (come il litio, l’acido valproico, la carbamazepina), antipsicotici atipici e, in alcuni casi, antidepressivi (da usare con estrema cautela, per il rischio di viraggio maniacale).

Tuttavia, il farmaco non può mai essere l’unico strumento. È fondamentale un percorso psicoterapeutico integrato, capace di aiutare il paziente a riconoscere i segnali precoci delle fasi, a costruire una narrazione di sé coerente e a rielaborare i traumi e i conflitti sottostanti. La psicoeducazione svolge un ruolo cruciale nel fornire consapevolezza, strategie di coping e supporto alla famiglia.

Eppure, anche al di là di questi strumenti, il paziente bipolare ha bisogno di essere ascoltato, accolto, riconosciuto. Troppo spesso egli viene ridotto a una “diagnosi mobile”, soggetto a ricoveri ripetuti, aggiustamenti farmacologici, etichette. La sua sofferenza richiede una presenza umana capace di restituirgli la dignità del proprio sentire, anche quando questo appare incomprensibile.

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