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Il pianto del bambino, cosa fare e non fare

Ignorarlo, assecondarlo oppure accoglierlo?

printDi :: 04 dicembre 2022 15:42
Il pianto del bambino, cosa fare e non fare

(AGR) Autore:  Anna Santangelo

Qualche settimana fa abbiamo pubblicato un articolo sull’importanza del pianto nel bambino, soffermandoci sul suo significato e sulla relazione con l’adulto significativo. In questo nuovo contributo invece vorremmo raccontare in maniera schematica cosa fare e cosa evitare nel momento in cui si interagisce con il bambino che piange. Non è un racconto questa volta, ma poche semplici indicazioni utili a mantenere una relazione sana con l’altro.

 
Ignorare il pianto del bambino. A tutti i genitori capita di lasciar piangere il proprio bambino, ma se questa è la modalità di accudimento predominante, il bambino, che cos’è, esattamente, che impara? Impara: che ad essere sbagliato non è il suo pianto o la ragione, per l’adulto spesso futile, che lo scatena, ma lui stesso. Che quando ha bisogno di conforto l’altro non c’è. A non darsi valore e a non esternare i suoi sentimenti. A non empatizzare con lo stato d’animo altrui. Che amare significa questo e fargli cambiare idea, negli anni a seguire, sarà molto complicato. Che lasciar piangere serve ad educare. Assecondare il bambino per evitare che pianga “Assecondalo, non farlo piangere!” Il bambino, qualora questa modalità di risposta sia agita costantemente, impara: A non tollerare le negazioni, intese anche come il rimprovero mosso dal datore di lavoro o il mancato assecondamento di una sua richiesta da parte di un amico o del partner. Che amare significa assecondare e che l’amore si dimostra lontano dai contrasti. A non saper gestire un conflitto relazionale. A sperimentare difficoltà in situazioni in cui il suo pensiero è in contrasto con quello di una persona a lui cara. A non saper affrontare il pianto altrui, entrando in uno stato di disagio qualora non riuscisse ad arrestarlo. Accogliere il pianto del bambino “Accogli il suo pianto!” Quando il bambino cresce all’interno di una relazione di attaccamento in cui il suo pianto viene accolto, impara: Ad accogliere il pianto altrui. A non avere paura di esprimere le proprie emozioni. A fidarsi degli altri. Ad essere empatico verso lo stato emotivo dell’altro. A credere in sé stesso e nelle proprie capacità. A riconoscere i propri limiti. Di seguito riporterò due esempi di come è possibile accogliere il pianto del bambino. 1. Immaginiamo che il bambino chieda al genitore di poter mangiare un gelato poco prima di cena e che il genitore risponda di no. Immaginiamo che il bambino scoppi a piangere, perché stanco per la giornata trascorsa e frustrato per la negazione appena ricevuta. Il genitore ha scelto di negargli il gelato per una ragione che ritiene valida e amorevole nei suoi riguardi, motivo per cui non ha modo di impedire che lui pianga. Quello che può fare è fargli compagnia durante il suo momento di tristezza, mostrandosi comprensivo verso il suo stato d’animo, ma spiegandogli la ragione per cui quello non è il momento per mangiare il gelato. 2. Immaginiamo che il bambino, durante il suo primo inserimento a scuola, si senta dire frasi del tipo: “Non si piange!” “Fai il bravo!” Fermo restando che non è questa la sede per approfondire cosa dovrebbe prevedere la formazione del personale addetto all’infanzia, le riflessioni che mi sono sorte spontanee, avendo assistito personalmente alle esternazioni sopra citate, sono le seguenti. Cosa c’è di sbagliato nell’esprimere tristezza quando il genitore si allontana e lascia il bambino a scuola? Scuola che per lui significa ambiente nuovo, gente sconosciuta, routine nuova, primo distacco dal genitore. Credo sia sano che il bambino si senta spaventato, disorientato e triste, così come credo sia altrettanto sano che esprima il suo disagio con il pianto. Come ci si può aspettare che il bambino accetti il distacco dal genitore senza sentirsi triste? Lo trovo fortemente irrealistico. Piuttosto che rimproverarlo quando piange, è utile rassicurarlo, facendogli sentire, nella modalità che più si sente propria, che comprendiamo il motivo del suo disagio, che gli siamo vicini e che può contare su di noi perché per noi lui è importante. Se fare il bravo equivale a non piangere, dal momento in cui sta piangendo, non sentendosi ancora sicuro per ambientarsi con il sorriso, allora vien da sé che non è un bambino bravo. Il messaggio che riceve è che la sua tristezza non è accolta e quindi è sbagliata, motivo per cui, oltre ad essere triste perché si trova lontano da casa, è ancora più triste perché si sente sbagliato. Solo il fatto di trovarsi in un ambiente nuovo e di trascorrervi diverse ore è un valido motivo per complimentarci con lui e dirgli che è stato bravo. Sia che ci sia stato piangendo, sia che ci sia stato con gioia, il bambino, durante la giornata scolastica, ha messo in atto tutte le sue migliori strategie di adattamento e, senza ombra di dubbio alcuna, con i suoi tempi e le sue modalità, si adatterà al nuovo ambiente. Conclusioni Accogliere il pianto non equivale ad arrestare la ragione che lo scatena, ma a far sentire al bambino che gli siamo vicini durante questa sua emozione. All’interno degli esempi sopra citati, il bambino ha provato tristezza, probabilmente anche rabbia, ma si è sentito accolto, capito e amato, allo stesso modo di quando si mostra sorridente. Ritengo doveroso sottolineare l’importanza di agire con consapevolezza nei riguardi dei bambini, così da garantirgli un futuro migliore, orientato sul rispetto di sé e dell’altro e sulla prevenzione del disagio psicologico. I bambini che crescono all’interno di ambienti in cui, il più delle volte, le loro emozioni vengono accolte, saranno bambini capaci di agire nel medesimo modo con i compagni di giochi e diventeranno adulti capaci di fare altrettanto.

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